de Young Museum, progetto di Herzog & de Meuron
Se ve la siete persa ecco la prima parte del post, scritto da Jole Paolantonio.
Potere all’edificio
Non è un caso che H&deM non attribuiscano nomi ma numeri ai propri lavori.
Il metodo di lavoro dei due svizzeri si basa su un processo che sfrutti il potenziale dell’architettura inteso come energia emanata dal contesto in cui si opera, ma soprattutto come processo cognitivo che si sviluppa naturalmente e che inevitabilmente provoca una continua mutazione formale e concettuale.
Ogni progetto è un’entità a sé stante, frutto di un processo in cui non è la mano dell’architetto a guidare, ma è il progetto stesso che prende le redini del gioco lo porta al risultato finale. Ciò contribuisce a sviluppare anche il potenziale umano, estremamente importante per H&deM; l’uomo rimane un elemento fondamentale della progettazione, ma non così importante da prevaricare i significanti dell’edificio.
Per questo motivo è difficile trovare nella carriera di H&deM una cifra stilistica, un filo rosso che accomuni gli edifici a chi li ha progettati. In questo aspetto, come in altri d’altronde, la coppia svizzera si discosta dal loro maestro Aldo Rossi.
Nell’architettura dell’architetto italiano è infatti possibile rintracciare, prima nei disegni e poi nelle opere realizzate, un continuum che definisce uno stile dell’autore, stile caratterizzato da forti riferimenti alla memoria storica che determina una cristallizzazione della realtà, una sorta di continua attesa.
H&deM hanno imparato e subito dimenticato la lezione del loro maestro, trasformando l’attesa in movimento, in un perenne hic et nunc che dilata la percezione, la amplifica, si muove con il muoversi della società.
Riprendendo un paragone che Alessandro d’Onofrio, nel libro Anomalie della Norma: Herzog &de Meuron, ha utilizzato per rendere più esplicita la differenza tra il maestro e gli allievi.
Il primo si lega alla pittura di De Chirico, in una dimensione atemporale, immutabile, rarefatta; i secondi si collegano a Picasso, alla visualizzazione di un momento che non pretende di rievocare il passato né tantomeno di alludere al futuro, un momento che però non rimane fisso, ma si scompone infinite volte, muta la percezione.
Il metodo di lavoro dei due svizzeri si basa su un processo che sfrutti il potenziale dell’architettura inteso come energia emanata dal contesto in cui si opera, ma soprattutto come processo cognitivo che si sviluppa naturalmente e che inevitabilmente provoca una continua mutazione formale e concettuale.
Ogni progetto è un’entità a sé stante, frutto di un processo in cui non è la mano dell’architetto a guidare, ma è il progetto stesso che prende le redini del gioco lo porta al risultato finale. Ciò contribuisce a sviluppare anche il potenziale umano, estremamente importante per H&deM; l’uomo rimane un elemento fondamentale della progettazione, ma non così importante da prevaricare i significanti dell’edificio.
Per questo motivo è difficile trovare nella carriera di H&deM una cifra stilistica, un filo rosso che accomuni gli edifici a chi li ha progettati. In questo aspetto, come in altri d’altronde, la coppia svizzera si discosta dal loro maestro Aldo Rossi.
Nell’architettura dell’architetto italiano è infatti possibile rintracciare, prima nei disegni e poi nelle opere realizzate, un continuum che definisce uno stile dell’autore, stile caratterizzato da forti riferimenti alla memoria storica che determina una cristallizzazione della realtà, una sorta di continua attesa.
H&deM hanno imparato e subito dimenticato la lezione del loro maestro, trasformando l’attesa in movimento, in un perenne hic et nunc che dilata la percezione, la amplifica, si muove con il muoversi della società.
Riprendendo un paragone che Alessandro d’Onofrio, nel libro Anomalie della Norma: Herzog &de Meuron, ha utilizzato per rendere più esplicita la differenza tra il maestro e gli allievi.
Il primo si lega alla pittura di De Chirico, in una dimensione atemporale, immutabile, rarefatta; i secondi si collegano a Picasso, alla visualizzazione di un momento che non pretende di rievocare il passato né tantomeno di alludere al futuro, un momento che però non rimane fisso, ma si scompone infinite volte, muta la percezione.
Uno dei principali cardini del pensiero di HdeM, se non il principale è la percezione.
Tutto è percezione e l’architettura, alla stregua di un sismografo, è in grado di coglierla in tutte le sue accezioni.
Questo concetto, come già espresso in precedenza, ha guidato la coppia svizzera nel loro primo lavoro e si andato man mano affinando e ampliando. Gli effetti di straniamento, di disvelamento e di inganno ottenuti durante la parata a Basilea grazie ad un attenta osservazione degli autori vibrano come un’onda in tutte le opere, a qualsiasi scala d’intervento.
Alla base della percezione vi è il recupero dell’uso di tutti e cinque i sensi.
Lungo tutta la storia dell’architettura, così come lungo tutto l’arco della storia umana, il senso che più di tutti ha dominato è stato la vista. Conseguenza di questa inconscia “perdita” dell’uso dei sensi è stato un profondo appiattimento culturale, una ricerca di valori nel passato, una mancanza di osservazione del mondo.
H&deM hanno sovvertito questa tendenza, diventando predicatori di un nuovo approccio non solo progettuale, ma anche indispensabile nella vita dell’uomo. Sfruttando appieno i sensi è possibile scoprire una dimensione diversa della realtà, una visione legata ad un minimalismo che i nostri esercitano tramite una profonda indagine analitica che predilige lo spessore interpretativo piuttosto che la sovrabbondanza di dati.
Risultato dell’indagine percettiva di H&deM non è però un’architettura che vuole lanciare obbligatoriamente un messaggio; anzi, essi sembrano quasi fuggire da questo intento, dichiarando che l’architettura nasce per essere tale, non per essere portatrice di valori.
Ciò può sembrare un controsenso, in realtà non è così; ogni opera nasce sì come una sorta di performance artistica fuori scala, come pezzo unico, come frutto di un processo percettivo, ma rimane comunque un’architettura nata per adempiere ad una funzione.
Questa netta dissonanza emerge negli edifici; essi contengono un’inquietudine latente e al contempo una familiarità che attraggono l’utente, lo spingono a vivere un’esperienza sensoriale completa, totalizzante.
Nelle opere di H&deM la vista è di certo il primo senso coinvolto, anche se molto spesso è il senso più ingannato. Si è convinti di vedere, ad una certa distanza, una superficie compatta, uniforme; avvicinandosi si scopre l’inganno, il gioco ottico sapientemente realizzato. Dopo un primo momento di straniamento e di timore sopraggiunge il dialogo polisensoriale; si scopre la qualità di un materiale, il suo suono, la sua texture, perfino il suo odore.
Tra i sensi maggiormente coinvolti è l’odore il senso più sviluppato negli architetti svizzeri. Paradossale ad un primo impatto; riflettendoci è invece un campo d’azione che apre notevoli spunti progettuali. Attraverso l’odore è possibile creare una mappatura ideale di uno spazio, si possono richiamare alla mente ricordi, immagini.
Tutto è percezione e l’architettura, alla stregua di un sismografo, è in grado di coglierla in tutte le sue accezioni.
Questo concetto, come già espresso in precedenza, ha guidato la coppia svizzera nel loro primo lavoro e si andato man mano affinando e ampliando. Gli effetti di straniamento, di disvelamento e di inganno ottenuti durante la parata a Basilea grazie ad un attenta osservazione degli autori vibrano come un’onda in tutte le opere, a qualsiasi scala d’intervento.
Alla base della percezione vi è il recupero dell’uso di tutti e cinque i sensi.
Lungo tutta la storia dell’architettura, così come lungo tutto l’arco della storia umana, il senso che più di tutti ha dominato è stato la vista. Conseguenza di questa inconscia “perdita” dell’uso dei sensi è stato un profondo appiattimento culturale, una ricerca di valori nel passato, una mancanza di osservazione del mondo.
H&deM hanno sovvertito questa tendenza, diventando predicatori di un nuovo approccio non solo progettuale, ma anche indispensabile nella vita dell’uomo. Sfruttando appieno i sensi è possibile scoprire una dimensione diversa della realtà, una visione legata ad un minimalismo che i nostri esercitano tramite una profonda indagine analitica che predilige lo spessore interpretativo piuttosto che la sovrabbondanza di dati.
Risultato dell’indagine percettiva di H&deM non è però un’architettura che vuole lanciare obbligatoriamente un messaggio; anzi, essi sembrano quasi fuggire da questo intento, dichiarando che l’architettura nasce per essere tale, non per essere portatrice di valori.
Ciò può sembrare un controsenso, in realtà non è così; ogni opera nasce sì come una sorta di performance artistica fuori scala, come pezzo unico, come frutto di un processo percettivo, ma rimane comunque un’architettura nata per adempiere ad una funzione.
Questa netta dissonanza emerge negli edifici; essi contengono un’inquietudine latente e al contempo una familiarità che attraggono l’utente, lo spingono a vivere un’esperienza sensoriale completa, totalizzante.
Nelle opere di H&deM la vista è di certo il primo senso coinvolto, anche se molto spesso è il senso più ingannato. Si è convinti di vedere, ad una certa distanza, una superficie compatta, uniforme; avvicinandosi si scopre l’inganno, il gioco ottico sapientemente realizzato. Dopo un primo momento di straniamento e di timore sopraggiunge il dialogo polisensoriale; si scopre la qualità di un materiale, il suo suono, la sua texture, perfino il suo odore.
Tra i sensi maggiormente coinvolti è l’odore il senso più sviluppato negli architetti svizzeri. Paradossale ad un primo impatto; riflettendoci è invece un campo d’azione che apre notevoli spunti progettuali. Attraverso l’odore è possibile creare una mappatura ideale di uno spazio, si possono richiamare alla mente ricordi, immagini.
Sin dalla primissima infanzia l’odore guida l’uomo, lo spinge verso la curiosità. Riacquistare questo senso, così come i restanti sensi, ha fornito a H&deM la chiave per un’architettura empatica, in cui l’uomo non è spettatore passivo, ma performer di un’esperienza sensoriale e cognitiva inaspettata.
Forum Building di Barcellona, progetto di Herzog & de Meuron
2 commenti:
Gli effetti di luce sono stupendi!
Lo penso anche io care "la giraffa e la papera"!
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